di David Arboit
Quando parli di disuguaglianze in Italia si alza subito il fuoco di sbarramento. Loro ti dicono in sostanza: “Certo, non viviamo in un mondo ideale perfetto, ma viviamo nel migliore dei mondi possibili nelle condizioni date. Insomma, ci sono stati grandi progressi, abbiamo fatto tanto anche se c’è ancora molto da fare”. Dai, non fare il pauperista, i Paesi del terzo mondo stanno meglio, stai sereno, andrà tutto bene. E la questione alla fine la si ritiene chiusa. La riflessione che Thomas Piketty affida al suo nuovo volume (clicca qui – clicca qui) pone invece un punto di vista completamente differente. Le disuguaglianze ci sono e negli ultimi decenni sono cresciute ed è colpa della politica. E attenzione, perché la partita del potere e del controllo sulla direzione del cambiamento, si gioca soprattutto sul piano culturale, sul piano della narrazione, cioè sul piano della ideologia. Ma allora che fare?
Occorre prima criticare i luoghi comuni che ricoprono e nascondo i significati della parola “ideologia”. E poi analizzare quali ideologie, cioè sistemi culturali, hanno avuto nel corso della storia, e hanno ancora oggi, la funzione di sostenere il sistema sociale che produce disuguaglianza, ossia di giustificare un determinato sistema di potere.
La parola ideologia ha oggi comunemente un connotato negativo; in sostanza significa: un modo di guardare il mondo, una interpretazione del mondo che non ha nulla a che fare con la realtà, con la vita concreta. Questa svalutazione della parola ideologia è fondata, è motivata, anche se viene sempre usata a senso unico: non si riferisce mai alla cultura che sostiene il potere dominante, e si riferisce sempre alle proposte che vogliono modificare lo status quo, gli assetti di potere consolidati.
Ma c’è anche la possibilità di pensare in modo diverso. «In questo libro – scrive Picketty – voglio provare a usare la nozione di ideologia in modo positivo e costruttivo, cioè come un insieme di idee e di narrazioni plausibili e intese a descrivere come si dovrebbe strutturare la società.» Insomma: ideologia come progetto di cambiamento plausibile.
Se riusciamo a liberare la nostra mente dalla ideologia del pragmatismo tecnocratico e dalla ideologia apologetica neoliberista, numeri alla mano notiamo che «L’aumento delle disuguaglianze a partire dagli anni ’80 e ’90 ha preso proporzioni così massicce che diventa sempre più difficile giustificarle in nome dell’interesse generale. Inoltre, quasi ovunque si spalanca un abisso tra i proclami meritocratici ufficiali e la situazione concreta delle classi svantaggiate in termini di accesso all’istruzione e alla ricchezza. La retorica meritocratica e imprenditoriale appare spesso come uno strumento che i vincitori dell’attuale sistema economico usano per giustificare comodamente qualsiasi livello di disuguaglianza, senza nemmeno doverla analizzare, e stigmatizzare i perdenti per la loro mancanza di merito, virtù e diligenza.» Il lavoro di Piketty, fondato come al solito su una quantità enorme di dati storici adeguatamente analizzati, mostra e dimostra questa affermazione.
Che fare?
Il salto di qualità che occorre fare per una proposta socialista del XXI secolo è di tipo culturale. È un rovesciamento del materialismo marxista tradizionale: viviamo in un mondo in cui la sovrastruttura (la cultura) e più determinante, è preponderante nella formazione della coscienza rispetto alla struttura del sistema economico. L’idea di Piketty non è una assoluta novità perché già il neomarxismo della Scuola di Francoforte fino a Jurghen Habermas aveva in qualche modo operato questo rovesciamento volendo indagare seriamente la domanda “come è potuto accadere” a proposito del nazifascimo.
Quello che urgente capire e che «La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica.» Questo significa che il cambiamento, il progresso, non è l’esito naturale della naturale evoluzione del sistema economico e tecnologico, ma è una scelta politica, e quindi è sostanzialmente una questione di mentalità, una questione culturale. «In altre parole, il mercato e la concorrenza, i profitti e i salari, il capitale e il debito, i lavoratori qualificati e non qualificati, i cittadini e gli stranieri, i paradisi fiscali e la competitività non esistono in quanto tali. Sono costruzioni sociali e storiche che dipendono interamente dal sistema giuridico, fiscale, educativo e politico che abbiamo scelto di istituire e dalle categorie a cui facciamo riferimento. Queste scelte rimandano innanzitutto alle rappresentazioni, che ogni società si costruisce, della giustizia sociale e di una economia giusta, e ai rapporti di forza politico-ideologici tra i diversi gruppi al suo interno. Questi rapporti di forza non sono solo materiali: sono anche e soprattutto intellettuali e ideologici. In altre parole, le idee e le ideologie contano nella storia, perché rendono costantemente possibile immaginare e strutturare nuovi mondi e società diverse. Sono sempre possibili traiettorie multiple.»
Per una più ampia esposizione dei temi di studio trattati nel volume da Piketty vale la pena di leggere un ampio articolo pubblicato su “Aggiornamenti sociali”, una rivista curata dai Padri Gesuiti (clicca qui).
L’ideologia, quindi, da un lato difende un sistema di potere, ma d’altro lato è il solo strumento che può criticare radicalmente un sistema di potere e definire progetti di riforma realistici. «Le élite delle diverse società, in ogni epoca e a ogni latitudine, hanno la tendenza a “naturalizzare” le disuguaglianze, cioè a cercare di dare loro una base naturale e oggettiva, a spiegare che le disparità sociali esistenti sono nell’interesse dei più poveri e della società nel suo insieme, e che in ogni caso la loro struttura attuale è l’unica possibile e non può essere sostanzialmente modificata senza causare immense disgrazie.»
Tra le ideologie che difendono lo status quo, cioè un sistema di poteri consolidato, la più subdola e pericolosa è il pragmatismo assoluto. Per il pragmatismo assoluto qualunque ideale, qualunque visione dell’uomo e del mondo, è squalificata con la parola ideologia. Ma il bello è che il pragmatismo assoluto non comprende che il pragmatismo assoluto è una ideologia, è una credenza. Ed è tra le credenze la peggiore perché vive nella certezza di non essere una ideologia.
Se quello che importa è l’ideologia, la cultura come fondamento del cambiamento, Piketty propone una interpretazione del “riformismo” interessante perché vuole incidere profondamente nella struttura di potere esistente, di combattere la forma dominante del riformismo, che è una retorica del cambiamento, e lo fa prendendo di petto la questione centrale: «ci sono molti e diversi modi di organizzare i rapporti di proprietà nel XXI secolo, e alcuni di questi possono rappresentare un superamento del capitalismo molto più autentico rispetto alla promessa di distruggerlo senza preoccuparsi di ciò che verrà dopo.» Perché chi studia la storia sa che tutte le società poggiano sulla legittimità e sulle procedure culturali di legittimazione di due colonne portanti: «le questioni del regime politico e della proprietà, cioè del potere sugli individui e del potere su ciò che si possiede».
In una intervista al settimanale 7 del “Corriere della Sera” Thomas Picketty dopo avere spiegato in estrema sintesi i risultati del suo studio, entra nel merito di anche di questioni politiche urgenti e di estrema attualità (clicca qui).
P.S. Non è la prima volta che l’arroganza del potere ha messo in ginocchio il potere. E non si tratta solo della Rivoluzione francese (clicca qui).